Un articolo del 2006 di Stefano Tomassini, recuperato come riflessione sul principe nudo nella "Giselle" contemporanea di Mats Ek ( Bolle al S.Carlo) e provocazione per la situazione attuale del balletto neglie enti lirici.
di Stefano Tomassini
Far le scarpe all'Opera
Il riscatto della danza e il tanga di Roberto Bolle
«C'è un detto cinese in cui ho sempre creduto: Se sei triste, arrabbiato o depresso non uscire tra la gente — le emozioni sono una malattia contagiosa».
Martha Graham, Blood Memory
Le più recenti e chiassose polemiche del tenore Roberto Alagna contro il successo smodato, su di un pubblico in fregola, del balletto all'interno dell'ultima Aida scaligera, un successo tale da far sfigurare o eclissare ogni merito (ma poi, indubbio?) dell'Opera e del suo Cast vocale nonché Scenotecnico Impresariale Dirigistico e infine Politico, per le vicende della danza e del balletto quelle polemiche altro non sono, vichianamente, che il ritorno della Storia sui suoi passi nel momento in cui la Provvidenza non rimedia. Come il prezzo da saldare nel ciclo perenne di un debito; la maledizione ricorrente di un mutuo, a tasso variabile.
Infatti già Metastasio, musone e depresso, in una sua lettera a Farinelli del 1 agosto 1750 ironizzava sul favore goduto dai balletti a discapito dell'opera seria: «Già a quest'ora [ossia: 'di questi tempi'] i musici ed i maestri [...] sono per lo più condannati in tutti i teatri alla vergognosa condizione di servir d'intermezzi ai ballerini, che occupano ormai la maggiore attenzione del popolo e la maggior parte degli spettacoli» (con buona pace per il fatto che, au contraire, la «vergognosa condizione» non doveva essere considerata tale, come intermezzo dell'Opera, per ballerini e balletti). Non pago, pochi anni dopo insisteva che: «... avendo rinunziato i musici all'espressione degli affetti, non grattano più che l'orecchio; e i ballerini per l'opposto avendo incominciato a rappresentarli, procurano d'insinuarsi nel cuore» (lettera ad Antonio Bernacchi, 15 settembre 1755).
Così la danza finisce per fare le scarpe all'opera seria perché la musica e il canto, a differenza del corpo, non sanno più penetrare (e replicare) le ragioni con cui il soggetto, nell'arte, sente risuonare affettivamente il mondo che lo circonda.
Ieri come oggi, dunque, non c'era che rassegnarsi.
Del resto, la danza – aveva già scritto il grande riformatore del ballo teatrale per la scena settecentesca Jean-Georges Noverre nelle sue Lettres sur la danse – «ha diritti incontestabili sul cuore e sull'anima» (Lettera XIV). Mentre anche un geniale Roberto Bolle in stato di grazia, durante una recente intervista televisiva, aggiungeva in merito all'apprezzamento generoso e unanime da parte del pubblico per il suo tanga da schiavo (che un turbato Isotta, scambiando la costumistica con l'anatomia, trascende in toto nei glutei del Nostro: "... ma si vedevano proprio solo quelli?"), che l'esibizione del corpo perfetto nella sua più esibita nudità è capace di accontentare proprio ma proprio tutti: uomini e donne, di destra e di sinistra.
E' la democrazia del porno esibita nel corpo, spogliato anche del ricatto simbolico del costume d'epoca, e sottratto al pudore — autoritario perché moralista — per il materializzarsi fisico del desiderio.
E ancóra con buona pace di Alagna, questa forma di lotta e di conquista della propria autonomia estetica nei confronti dell'opera musicale, storicamente la danza se l'era già preparata rinforzando con supporti interni (inizialmente soltanto in modo rudimentale) le scarpette da ballo, consolidando la salita sulle punte in quanto tecnica acrobatica femminile in stretta consonanza con l'immateriale fallocentrismo dello sguardo del pubblico maschile, tenuto a bada nei palchi e giù in platea.
Con l'avvento e il l'affermarsi, poi, nel Novecento, della danza libera, il feticismo del piede nudo sostituisce (e deflagra) la fallica scarpetta da ballo, che diventa sinonimo di conservazione come del conforto patinato delle cose vecchie e desuete, nemica del brutto e del problematico. Anche Aby Warburg, lo storico dell'arte e della cultura europea attento alla dimensione funzionale della creazione figurativa, per cui la storia delle immagini si combina come una inedita storia delle idee, ironizzava sui «piedi nudi» di Isadora Duncan e «sulla sua "espressione da santa"» (ne riferisce E. H. Gombrich), ossia avvertiva un istintivo moto di avversione per tutto quel corollario filosofico e metafisico impiastricciato confusamente di esotismo e di esoterismo, salvo poi rimanere colpito e forse più pungolato dal suo ardito abbigliamento pedibus calcantibus, non tanto nel suo valore estetico ma sul suo significato come documento dello spirito della modernità, perché la «tragica storia della libertà di pensiero dell'uomo europeo moderno» dipende anche dall'ubbidienza all'influenza degli antichi (A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, 1932), allo stesso modo in cui «Le vesti sciolte della "Ninfa" impressionarono i contemporanei di Lorenzo de' Medici».
Ma nel secolo che ha fatto un'utopia modernista della miseria rusticana nelle Scarpe della Contadina di Vincent van Gogh, e ha celebrato la morte dell'oggetto nel feticismo della merce in Diamond Dust Shoes di Andy Wharol, così come proposto a contrasto da Fredric Jameson (Postmodernism, 1984), e poi ricondotto a un identico, se pur inverso, spazio teorico dalla critica postcoloniale di Gayatri Chakravorty Spivak, il dissimile e la rottura nella Storia altro non sono che ripetizione. Così come il tanga di Bolle è il significante con cui la Storia rivendica una discontinuità, ma dietro la quale si scorge perfettamente in opera una produzione di desiderio vecchio stile.
(01 dicembre 2006)
Nessun commento:
Posta un commento